“Quel Dc9 doveva finire così…”. Le prime ipotesi sull’incidente aereo e le sorti della compagnia Itavia nell’archivio della strage di Ustica (1986-2011)
1. Premessa
“Ustica rappresenta tuttora il vero ‘buco nero’ nel mosaico che abbiamo ricostruito. È una vicenda che ha al contempo elementi di forte continuità e discontinuità con altre vicende oggetto della nostra indagine; probabilmente appartiene quanto a realtà nascosta a un contesto diverso, quando a metodi di nascondimento delle verità rientra in un contesto che richiama le altre vicende su cui abbiamo indagato”.[1] Così il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi Giovanni Pellegrino rispose al giornalista Paolo Cucchiarelli che lo interpellò in merito alle conclusioni contenute nella proposta di relazione sui lavori della Commissione al termine della XII legislatura, nella quale si posero per la prima volta in sede parlamentare i problemi dell’esistenza in Italia di un “doppio Stato”, di una “sovranità limitata” dell’organismo legittimo e di una “doppia lealtà” dei suoi funzionari.
A trentacinque anni di distanza da quell’evento disastroso, infatti, nessuna responsabilità riguardo alle circostanze della morte degli 81 passeggeri a bordo del Dc9 della compagnia Itavia è stata appurata e perseguita, mentre, per quel che riguarda il processo contro i vertici dell’Aeronautica militare – accusati di attentato agli organi costituzionali con l’aggravante dell’alto tradimento per avere, con il loro comportamento più che reticente, ostacolato l’inchiesta sulla strage –, le assoluzioni “perché il fatto non sussiste”, confermate all’inizio del 2007 in Cassazione, hanno segnato la fine di un procedimento lungo e complesso, durante il quale centinaia di individui tra giudici, avvocati, periti, consulenti e soprattutto familiari delle vittime hanno giocato una partita cruciale tesa alla ricostruzione di una scenario mai chiaramente delineato, sotto gli occhi dell’opinione pubblica e soprattutto dei mezzi di comunicazione, i quali, fin dal primo istante, hanno avanzato e supportato le tesi più disparate, in una prospettiva, spesso bizzarra, altre volte penosa, di individuazione immediata delle responsabilità più che di indagine razionale sulle circostanze e le prove.
Tale fatale tendenza portò a privilegiare nei giorni immediatamente successivi al disastro alcune ipotesi di ricostruzione, che, irrobustite dall’avallo del mondo politico e dall’eco che la stampa garantì loro, relegarono in secondo piano ogni altra congettura, provocando la perdita di informazioni e dati preziosi e spingendo verosimilmente anche gli organi giudiziari verso piste rivelatesi poi infruttuose.
Se dunque in un sequestro le prime ore rappresentano il momento più critico dell’intera vicenda, così per il disastro di Ustica il successivo primo mese fu attraversato da un turbinio di ricostruzioni, tesi, illazioni, tra le quali emerse tra tutte, divenendo predominate ed oscurando le altre, quella del famigerato “cedimento strutturale”, ossia della rottura del velivolo per cause interne, che provocò un vero e proprio sconquasso nel mondo dei trasporti aerei e l’immediata revoca delle concessioni di volo alla compagnia Itavia, che prima fra tutte fu additata quale responsabile della strage, e che di lì a poco venne sciolta.
È così che, nel corso degli anni, quando ben più pesanti responsabilità sono state indagate dalla magistratura e ben più complessi scenari sono stati delineati anche in sede politica e parlamentare, tra i conoscitori della vicenda di Ustica si è affermata la visione di un’Itavia sacrificata a sua volta ad una fatale campagna diffamatoria che ne ha fatto l’82a vittima della strage. Questo intervento, dopo una prima illustrazione del complesso archivistico relativo alla vicenda di Ustica e del soggetto che l’ha prodotto, vuole ripercorrere, alla luce della documentazione depositata dall’Associazione parenti delle vittime della strage presso l’Istituto storico Parri Emilia-Romagna, i primi trenta giorni che seguirono all’inabissamento del Dc9.
2. L’Associazione dei familiari ed il complesso archivistico
2.1 L’Associazione
A differenza di quanto avvenuto per l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, costituitasi meno di un anno dopo l’evento, il 1° giugno 1981, il sodalizio tra i parenti dei morti ad Ustica venne istituito ufficialmente a Bologna solamente il 22 febbraio 1988, con “lo scopo di ‘accertare la verità e quindi le responsabilità civili e penali della strage di Ustica, con tutte le iniziative possibili’” (articolo 3 dello Statuto). Varie le interpretazioni che di tale “ritardo” sono state fornite: “I primi anni sono stati terribili, non riuscivo neanche a parlare della morte di mio fratello”,[2] così Daria Bonfietti, fondatore e presidente dell’Associazione, sorella di Alberto, che come tutti gli altri familiari delle vittime, sovrastati ed annichiliti dalla tragedia che li colpì, visse quei primi anni in un dimensione di dolore “contenuto”, privato, silenzioso, quasi nel rispetto di quelle norme che nella nostra società prevedono dinanzi alla morte ed alla malattia di “separarsi per un periodo di tempo – anch’esso definito – dal resto del mondo”.[3]
Un timido tentativo – non riuscito – di dar vita ad un’associazione venne accennato, nei giorni immediatamente successivi al disastro, da Gianfranco Fontana, fratello del secondo pilota del Dc9, insieme a Giannina Giau, vedova di Alberto Bonfietti.
Ma la prima vera iniziativa legata alla salvaguardia della memoria delle vittime ed alle richieste all’autorità governativa di fare di più e meglio nell’individuazione delle responsabilità del disastro aereo fu avviata solo a metà del 1986. La proposta fu avanzata in concomitanza pressappoco con la fine dei lavori della Commissione d’inchiesta tecnico-formale istituita poche ore dopo la scomparsa del Dc9 dall’allora Ministro dei Trasporti Rino Formica, la quale, sebbene “avesse lasciato aperto un ventaglio di ipotesi sulle cause del disastro aereo, dopo aver escluso il cedimento strutturale e la collisione in volo”,[4] aveva mancato di accertare la reale dinamica dell’incidente, suscitando la reazione di alcuni esponenti del mondo politico e di numerose personalità, tra cui l’ex presidente della Corte Costituzionale, Francesco Paolo Bonifacio, il vicepresidente del Senato, Adriano Ossicini, il senatore Pietro Scoppola, i deputati Antonio Giolitti (Psi), Pietro Ingrao (Pci) e Stefano Rodotà (Sinistra indipendente) ed il sociologo Franco Ferrarotti, che il 27 giugno 1986 scrissero al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga organizzandosi, a partire dal 30 settembre successivo, in un “Comitato per la verità su Ustica”.
Alla loro iniziativa seguì l’intervento di Daria Bonfietti, la quale, nell’appello del 30 luglio,[5] indirizzato ai parenti delle vittime, invitò tutti a costituirsi parte civile per far fronte comune in una vicenda che fino ad allora aveva visto i familiari seguire da lontano e con rassegnato distacco le sorti di un’indagine giudiziaria che stagnava incerta e di un’inchiesta ministeriale che, come abbiamo visto, si rivelò dall’esito insoddisfacente. All’interno del Comitato per la verità su Ustica confluirono così, oltre a quelle dei primi sette firmatari dell’appello, numerose adesioni sia “esterne”, quali le sigle sindacali Cgil, Cisl e Uil, le Acli, il Consiglio provinciale di Bologna,[6] e nomi della politica nazionale come Ottaviano Del Turco, Tina Anselmi, Franco Marini, e Romeo Ferrucci, esponente dell’Associazione italiana giuristi democratici (presso il quale il gruppo dei promotori del Comitato ebbe sede almeno per tutto il 1987), sia da parte degli stessi familiari,[7] i quali, in una lettera aperta al Presidente della Repubblica del 27 settembre, si espressero, per la prima volta tutti insieme, “perché luce piena sia fatta su quanto è accaduto ad Ustica, così che emerga finalmente una sola verità, senza ombre, senza patteggiamenti, senza tortuosi e indecenti compromessi”.[8]
Raccolte progressivamente le adesioni dei “familiari delle vittime senza limiti rispetto al grado di parentela” (articolo 7 dello Statuto), l’Associazione creata nel 1988 ha oggi sede nel capoluogo emiliano ed è centro di promozione di numerose iniziative tese da un lato naturalmente alla commemorazione dell’anniversario della strage, e dall’altro a creare nella società civile e nell’opinione pubblica un circuito di partecipazione intorno ai motivi fatti propri dal nuovo associazionismo di tipo familiare, vale a dire giustizia e dignità, connaturando, dunque, la propria attività all’insegna del binomio memoria-verità.[9]
Sin dalla sua istituzione l’Associazione ha avuto, dunque, in Daria Bonfietti il suo punto di riferimento, creando una profonda compenetrazione tra la persona fisica e l’ente, che giustifica le commistioni esistenti tra l’archivio dell’Associazione ed il fondo personale della Bonfietti, soprattutto per quel che riguarda il periodo compreso tra il 1986 ed il 1994, ossia fino all’inizio della sua attività politica a livello nazionale, quando alla documentazione legata più strettamente ad Ustica, cominciarono ad affiancarsi nel suo fondo le serie relative all’impegno elettorale e parlamentare.
Lunga ed articolata si presenta, infatti, la carriera romana della Bonfietti. Nata a Mantova il 5 luglio 1945, frequenta la Facoltà di scienze politiche dell’Università di Bologna, partecipando alle iniziative promosse dai collettivi universitari. Dopo la laurea, a partire dal 1968 insegna economia e diritto presso l’Istituto tecnico industriale Aldini-Valeriani di Bologna.
Alle elezioni per la XII legislatura (14 aprile 1994-8 maggio 1996) viene eletta con il Partito democratico della sinistra (Pds) alla Camera dei deputati nel collegio uninominale n. 16 dell’Emilia-Romagna (Bologna-Pianoro) col 48% delle preferenze; alla Camera fa parte del gruppo dei Progressisti-Federativo.
Alle elezioni per la XIII legislatura (9 maggio 1996-29 maggio 2001) viene eletta al Senato della Repubblica nel collegio uninominale n. 5 dell’Emilia-Romagna (Imola) nella lista dell’Ulivo; è infine confermata al Senato nelle consultazioni per la XIV legislatura (30 maggio 2001-27 aprile 2006), eletta nel collegio uninominale n. 8 dell’Emilia-Romagna (Bologna-Mirandola) sempre nella lista dell’Ulivo. Durante la permanenza in Senato fa parte del gruppo Sinistra democratica-l’Ulivo, denominato dal 1998 Democratici di Sinistra-l’Ulivo.
In Senato è componente, durante la XIII legislatura, della 2ª Commissione permanente (giustizia), e della Commissione parlamentare per l’infanzia; significativa la sua presenza, prima come semplice membro, poi in qualità di segretario, anche nella Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, da cui uscì però l’11 ottobre 1999 a seguito della conclusione dell’istruttoria del procedimento penale ed il rinvio a giudizio degli ufficiali dell’Aeronautica militare.
Nel successivo mandato è stata, invece, eletta prima nella 6ª Commissione permanente (finanza e tesoro) e, successivamente, nella 3ª Commissione permanente (affari esteri, emigrazione); durante l’intera legislatura ha seduto, poi, nella Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, e fatto parte della Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce).
Anche in Senato la sua attività in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi non ha cessato di progredire, trovando anzi in sede legislativa un terreno privilegiato di coltura: come primo firmatario ha infatti presentato durante la XIII legislatura diversi disegni di legge al fine di modificare la l. 23 novembre 1998, n. 407 a favore delle vittime delle stragi e del terrorismo, di garantire un risarcimento alle famiglie dei caduti nel disastro aereo di Verona, di introdurre nuove norme per la limitazione del segreto di Stato e di assicurare assistenza psicologica e legale urgente in favore delle vittime di gravi reati di violenza e dei loro familiari; queste due ultime materie sono state al centro dell’iniziativa legislativa di Daria Bonfietti anche nel corso della XIV legislatura, che l’ha vista altresì promotrice di un disegno di legge per l’estensione dei benefici della l. 3 agosto 2004, n. 206, ai familiari delle vittime della strage di Ustica, nonché ai familiari e ai superstiti delle vittime della cosiddetta “banda della Uno bianca”.
Reiterati sono stati, infine, gli stimoli al governo attraverso alcune mozioni perché rinnovasse “la richiesta a Stati Uniti, Libia, Francia e Gran Bretagna di tutte quelle informazioni che la magistratura italiana lamenta di non avere avuto in maniera soddisfacente, e a continuare la collaborazione con la Nato che ha già dato considerevoli risultati; a considerare con la dovuta attenzione la responsabilità di quanti, appartenenti alla Pubblica Amministrazione, civili o militari nel corso di questi anni hanno posto in essere atteggiamenti ostruzionistici od omissivi nei confronti delle indagini della magistratura”.[10]
2.2 L’archivio
Il complesso di fondi convenzionalmente individuato come “archivio della strage di Ustica”, così come depositato e conservato dal 2006 presso l’Istituto per la storia e le memorie del 900 Parri Emilia-Romagna di Bologna risulta costituito di due nuclei distinti: il fondo dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica e il fondo personale della sua presidente Daria Bonfietti.
Il fondo dell’ente copre un arco cronologico compreso tra il 1988 ed il 2011, con precedenti in copia dal 1971, ed ha una consistenza di 71 buste distribuite su circa 15 metri lineari. L’attuale ordinamento individua nel fondo otto serie documentarie: 1. verbali (1988-2010), 2. corrispondenza (1988-2001), 3. anniversari ed eventi (1989-2011), 4. studi e pubblicazioni (1989-2008), 5. fotografie (1989-2005), 6. rassegna stampa (1980-2011), 7. gestione conto corrente (1989-1998), 8. ricevute di pagamento (1989-1997). Le serie sono integrate da una consistente raccolta di video ed audiocassette contenenti stralci di telegiornali e trasmissioni televisive e radiofoniche che hanno documentato il caso Ustica, nonché sedute della Commissione stragi e conversazioni telefoniche tra Daria Bonfietti e vari giornalisti (1980-2010).
A questa documentazione direttamente prodotta dall’Associazione, e dunque in originale, all’interno del complesso archivistico si affiancano due importanti sezioni di documenti in copia, raccolte dall’ente non solo nel corso della sua attività istituzionale legata alla memoria della strage, ma anche in quanto associazione di persone diversamente in causa nell’indagine giudiziaria, poiché costituitesi parte civile, e dunque relative all’accertamento delle responsabilità del disastro: si tratta delle sezioni denominate “Inchiesta giudiziaria” (1980-2005) ed “Inchiesta parlamentare” (1989-2000).
La prima si compone di documenti relativi al procedimento penale n. 527/84A contro ignoti per il delitto previsto e punito dagli artt. 422 (Strage) e 428 (Naufragio, sommersione o disastro aviatorio) del codice penale commesso il 27 giugno 1980 sul Tirreno (cosiddetta “strage di Ustica”), prodotti dalla Procura della Repubblica di Palermo e di Roma, e dall’Ufficio istruzione del Tribunale di Roma relativamente alla fase istruttoria, e dalla 3ª sezione della Corte d’Assise di Roma, relativamente alla conseguente fase dibattimentale. Si tratta prevalentemente di processi verbali; relazioni ed analisi peritali (perizie chimiche, radaristiche, medico-legali, tecnico-scientifiche); interrogatori ed atti preliminari di interrogatori; confronti; relazioni di consulenti di parte; trascrizioni di bobine; verbali di riunione; analisi critiche; decreti di sequestro e di acquisizione di cose pertinenti a reato; ordinanza di rinvio a giudizio; sentenza.
La seconda si compone di documenti prodotti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia relativi al filone d’inchiesta sull’incidente aereo di Ustica. Si tratta prevalentemente di copie di trascrizioni stenografiche delle sedute della Commissione; copie di atti trasmessi direttamente alla Commissione, o acquisiti nell’ambito di ricerche affidate ai consulenti o anche di documenti consegnati nel corso delle audizioni; relazioni, resoconti ed estratti a stampa dei lavori della Commissione.
Il fondo personale di Daria Bonfietti abbraccia un periodo compreso tra il 1986 ed il 2010, con documenti in copia dal 1980, e risulta costituito da 39 buste per circa 5 metri lineari. Le serie individuate al suo interno dall’attuale ordinamento sono cinque: 1. carteggio (1986-2008), 2. attività di studio (1989-2008), 3. attività di partito (1994-2007), 4. attività parlamentare (1994-2006), 5. rassegna stampa (1980-2010). Il complesso documentario è in ogni modo esclusivamente attinente alla sfera pubblica del soggetto produttore, non essendosi ad esempio riscontrata la presenza di corrispondenza a carattere privato, ma solo di quella prodotta in qualità di presidente dell’Associazione dei parenti, mentre le carte inerenti il mandato politico individuano chiaramente aspetti “episodici”, sebbene rilevanti, della vita del personaggio.
Vale senza dubbio la pena spendere qualche parola sulle relazioni che intercorrono tra questi due complessi documentari. Gli archivi, che costituiscono due entità distinte, presentano, infatti, una sovrapposizione, una combinazione e spesso una duplicazione di carte che testimoniano da un lato una struttura amministrativa leggera ed essenziale, dalle competenze poco formalizzate, costituita di pochi collaboratori e condivisa con altre realtà associative, dall’altro l’impegno e il dinamismo tutto personale della sua presidente, che spesso da sedi diverse (la sua residenza privata bolognese e quella romana) provvedeva al disbrigo della corrispondenza, determinando la conservazione della documentazione in uno piuttosto che nell’altro dei due fondi, avvertiti quasi come intercambiabili e interdipendenti.
Tale complementarietà appare risolvibile a livello di descrizione archivistica attraverso la predisposizione di puntuali rimandi tra i fascicoli che costituiscono i due fondi, una scelta che certo rispetta la specificità degli archivi, e consente di preservare l’originaria sedimentazione delle carte e la fisionomia che i complessi documentari hanno assunto. Ciò permette anche di salvaguardare la prassi che ha caratterizzato, e caratterizza ancora oggi, le relazioni tra i due soggetti. Inoltre la presenza dei due fondi presso lo stesso ente conservatore garantisce al ricercatore la possibilità di accedere simultaneamente alla documentazione, escludendo l’eventualità di una consultazione parziale o, ancor peggio, lacunosa, e solleva l’archivista dalla gravosa scelta di scompaginare complessi documentari già costituiti, sebbene con le modalità cui si è appena accennato.
3. L’incidente e le primissime ipotesi
3.1 “Le bare volanti dell’Itavia”
L’ora (le 20,56) era troppo tarda perché la notizia della tragedia uscisse sui giornali già per venerdì 27 giugno. Il giorno successivo il primo quotidiano italiano titolò: “Cade un aereo con 81 persone sulla rotta Bologna-Palermo”. Il giornale non azzardò alcuna ipotesi ma rassicurò sul fatto che “il pilota non aveva segnalato anomalie né alcunché di irregolare”.[11]
Diverso l’approccio che la stampa ebbe a ventiquattr’ore dalla tragedia, quando le principali testate giornalistiche si scatenarono in tutte le possibili ricostruzioni. L’organo del Partito comunista illustrò subito “Le tante ipotesi del disastro”, e parlò di un’improvvisa esplosione in volo (attribuita ad un fulmine, ad un difetto di pressurizzazione o ad un sabotaggio), che non avrebbe dato al pilota il tempo di lanciare alcuna segnalazione e che avrebbe giustificato l’enorme numero dei rottami sparsi per un’area molto vasta; a queste affiancò, ma con meno enfasi, le tesi della rottura dei turboreattori o di una manovra errata del pilota. Scartato il fulmine in un cielo tutto sommato sereno e verificata l’infondatezza della notizia, arrivata alla redazione del “Corriere della sera” poche ore dopo la tragedia, della presenza a bordo del terrorista dei Nar Marco Affatigato, quella del difetto di pressurizzazione apparve da subito come l’ipotesi più “facile” da sostenere: “l’aereo, ancorché revisionato pochi giorni prima, era vecchio di 14 anni e aveva accumulato migliaia di ore di volo”.[12] “l’Unità” presentò, infine, ma semplicemente come “una voce che circola con insistenza in ambienti Itavia e militari”, non suffragata da nessun riscontro, l’idea di una collisione in volo con un aereo della Nato. Come vedremo il giornale del Pci fu in seguito uno degli organi di stampa che portarono avanti con maggior decisione tale posizione; tuttavia Gianni Buozzi non tralasciò, a caldo, di sottolineare come “di questa società dei trasporti aerei [l’Itavia, ndr.] si parla oramai da anni e con accenti molto preoccupati”,[13] a causa di disservizi definiti “gravi” da un’interrogazione parlamentare presentata in Senato tre mesi prima proprio da esponenti comunisti (Libertini e Flamigni), irregolarità tutte però relative solamente a ritardi, cancellazioni ed overbooking, che fecero della compagnia privata un facile bersaglio di chi – soprattutto nel Pci – avrebbe volentieri affidato “alla compagnia di bandiera Alitalia la concessione delle linee attualmente malgestite dall’Itavia”.[14]
Lo stesso giorno Bruno Tucci sul “Corriere della sera”, dopo aver scartato dirottamento, terrorismo, sabotaggio, bomba ed avaria, avallò l’ipotesi dell’esplosione in volo dovuta ad un difetto di fabbricazione del Dc9 (dunque, più che un’avaria vera e propria, che il pilota avrebbe potuto segnalare immediatamente, un improvviso cedimento della coda che “si può incrinare e spezzare per affaticamento del metallo”)[15], e comparve subito la parola “pericolosi” riferita ai velivoli della classe Dc9, “di vecchia costruzione, senza scaletta posteriore”; anche Tucci riferì, infine, come “l’Unità” il giorno prima, “una indiscrezione clamorosa che è stata però immediatamente smentita dal ministero della difesa”: l’esplosione potrebbe essere stata causata da una collisione con un non meglio specificato aereo militare mancante all’appello. Sulla stessa pagina Vittorio Monti interpellò, inoltre, i piloti dell’aereo che portava i parenti delle vittime a Palermo: “Deve essere successo qualcosa di improvviso e tremendo che ha impedito a chi era ai comandi di reagire”.[16] Anche Andrea Purgatori, il reporter che fece di Ustica il principale oggetto delle sue inchieste giornalistiche, azzardò tre ipotesi: l’esplosione, causata da ordigno a bordo o da “affaticamento del metallo” (fenomeno repentino che avrebbe causato la caduta immediata dell’aereo), la collisione con un missile o un altro velivolo, il vento contrario.[17]
Meno possibilisti altri quotidiani come “Paese sera”. Il giornale comunista raccolse, infatti, la testimonianza del senatore Salvatore Corallo, che era stato a sua volta messo in guardia da un funzionario Alitalia sulla sicurezza e l’affidabilità dei vettori Itavia, affittati dalla compagnia di bandiera per andare incontro – a suo dire – alle difficoltà economiche del concorrente privato: “Si tratta in effetti di vere e proprie carcasse maltenute”.[18] Corallo, in seguito al colloquio con l’anonimo funzionario, sottopose un’interrogazione al Ministro dei Trasporti, la quale, all’indomani del disastro aereo di Ustica, venne presentata all’opinione pubblica come prova dell’interesse di vecchia data dimostrato dal partito nei riguardi della sicurezza dei voli in Italia.
Sulla stessa linea “Il Messaggero”, che, riportando a sua volta l’intervento di Corallo, affermò come “l’interrogazione, nella sostanza, dice che alcuni aerei dell’Itavia sono bare volanti, macchine super logorate che dovrebbero essere radiate”,[19] e, sollevando l’ipotesi dell’improvviso cedimento della struttura dell’aereo, riferì (come Tucci sul “Corriere” lo stesso giorno), della lunga catena di incidenti cui era già stata soggetta quella classe di aeromobili, concludendo che “se questa ipotesi fosse vera, di bomba si può tornare a parlare riferendosi, però, al jet che tanto l’Itavia quanto il Registro aeronautico hanno tenuto in esercizio”.[20] Fin da subito, dunque, il quotidiano romano si pose tra i più accesi accusatori della compagnia aerea e tra i più strenui difensori dell’ipotesi “avaria”: scartando come inverosimile il sabotaggio causato da un ordigno a bordo (idea sollevata sia dalla direzione dell’aeroporto di Bologna che dall’Itavia stessa) ed impossibile l’errore umano da parte di un equipaggio considerato esperto, il giornale trattò, inoltre, come improbabile l’idea di una collisione con un oggetto esterno, salvando, per esclusione, la più grave delle piste.[21]
Trascorsi il sabato e la domenica successivi al disastro in un susseguirsi frenetico di ricostruzioni, tutte per lo più basate sulla maggiore o minore verosimiglianza dell’una o dell’altra, lunedì 30 giugno, anche a seguito del recupero dei primi reperti del velivolo e delle prime salme, le testate italiane confluirono su di un’unica comune congettura, la quale prese sempre maggiore spessore il primo giorno di luglio: l’aereo si sarebbe “spezzato” in volo perdendo l’intera coda.
Il quotidiano indipendente “Il tempo”, riportando le dichiarazioni di un medico presente alle autopsie dei cadaveri sottratti al mare, affermò che “non c’è nessuna traccia ragionevole che possa far pensare all’esplosione di una bomba a bordo. Nessuno dei corpi presenta segni di bruciature o ustioni”.[22] Ancora una volta la pista più semplice da seguire fu il cedimento strutturale, che immediatamente venne avallato anche dalle autorità militari: un anonimo ufficiale dell’Aeronautica militare, intervistato dal giornalista, dopo aver solennemente confermato che “non c’era alcuna esercitazione o volo singolo di velivolo militare in quel momento”, illustrò come “il distacco improvviso di un’ala, di un alettone meglio, l’imperfetta tenuta di un oblò possono aver determinato un’improvvisa depressurizzazione del velivolo”.[23] A cedere, dunque, secondo il giornale, sarebbe stata la coda dell’aereo, provocando la dispersione di alcuni corpi dei passeggeri in un’area vasta decine di chilometri quadrati e condannando gli altri ad inabissarsi col resto della fusoliera a 3.600 metri di profondità, nella fossa del Tirreno.
Della stessa opinione “Il Messaggero”, sul quale Lucio Galluzzo portò nuovamente alla memoria le immagini di un altro incidente simile occorso ad un Dc9 dell’AirCanada, che in fase di atterraggio aveva perso la coda un anno prima, rimproverando all’Itavia di brigare per allontanare da sé accuse di negligenza: “Per l’Itavia, insomma, è impensabile una causa “interna” ed è necessario o un meteorite ovvero un aereo militare di una potenza straniera entrato in collisione con il volo civile di linea. L’ipotesi appare quanto mai fantasiosa”,[24] come assolutamente destituita di fondamento secondo il cronista era “la dichiarazione, fatto a caldo dall’Itavia, secondo la quale la sciagura sarebbe stata provocata dall’esplosione in un ordigno imbarcato a bella posta”.[25]
Anche “la Repubblica” sottolineò, pur ricordando come il suo ultimo check-up risalisse al maggio precedente, i lunghi anni di servizio del velivolo, e che “alla fine del ‘79 la Douglas aveva iniziato la revisione di tutti i Dc 9 nella parte poppiera”,[26] mentre Nino Sofia aprì il suo pezzo citando l’interrogazione del senatore Corallo sui “disservizi” dell’Itavia, e commentando come “non ci vuole molto ad immaginare che questa testimonianza è destinata a diventare uno dei punti focali dell’inchiesta”.[27]
L’unica testata a mantenersi su posizioni più aperte fu il “Corriere della sera”, sul quale il 30 giugno Andrea Purgatori tornò sull’ipotesi della collisione, offrendo una prima articolata ricostruzione dello scenario aereo nel quale doveva essersi trovato a volare il Dc9: il punto esatto, denominato “Condor”, della scomparsa del volo IH870 dal radar di Ciampino rappresentava l’intersezione tra due aerovie, utilizzate l’una (l’Ambra 13) dai voli civili, l’altra (la Delta 12) da quelli militari: “Potrebbe dunque essersi verificato lo scontro in cielo tra il DC-9 e un altro aereo militare? Non è escluso, dicono piloti civili e dell’aviazione da guerra a cui abbiamo chiesto chiarimenti”.[28]
Ma nemmeno il quotidiano di via Solferino resistette all’ondata crescente (che – prendendo in prestito un termine dei nostri giorni – potremmo definire di “giustizialismo”) che pervase la stampa italiana e travolse la compagnia aerea dall’inizio del nuovo mese: il 1° luglio il “Corriere” tornò ad aprire la prima pagina con un pezzo di Purgatori incentrato sulle dichiarazioni della Federazione italiana lavoratori del trasporto-Cgil, la quale diramò “un comunicato piuttosto duro nei confronti della compagnia, sostenendo che i DC-9 dell’Itavia sono stati comprati usati e con notevole numero di ore effettuate e che la manutenzione è molto carente con anomalie tecniche che si ripetono continuamente, aeromobili che volano con la continua complicità della Rai (Registro aeronautico italiano)”.[29]
Tali dichiarazioni aprirono la strada anche ad altre testate: la più dura e schierata fu sempre “Il Messaggero”, che, in un pezzo di Galluzzo, parlò esplicitamente di “jet-carrette” contro i quali gli stessi piloti Itavia scioperarono il precedente 18 giugno: “Proprio il jet precipitato, secondo alcune indiscrezioni sarebbe stato il più vecchio per ‘cicli di usura’”.[30] E mentre da parte della compagnia aerea, interpellata sia dal “Messaggero” che dal “Corriere”, arrivarono secche le smentite su di un eventuale acquisto in Sudamerica del Dc9[31] o di un guasto del velivolo,[32] l’interpretazione dei primi risultati delle autopsie effettuate sui corpi portò gli osservatori ad escludere con sempre maggior veemenza l’ipotesi dell’esplosione; “Repubblica” appoggiò come la “più credibile tra le supposizioni” quella della depressurizzazione: “il forte vento che venerdì sera batteva le alte quote […] avrebbe provocato l’allargamento e il cedimento di una lesione, probabilmente preesistente nella parte terminale dell’aereo. Risultato un’immediata decompressione che avrebbe risucchiato fuori tutti i passeggeri senza cinture di sicurezza e messo fuori uso nel giro di un paio di secondi tutte le apparecchiature di bordo”.[33]
“l’Unità”, cavalcando le rivendicazioni avanzate dagli ambienti sindacali Filt-Cgil e la loro denuncia delle carenze strutturali dei vettori Itavia (sebbene non tralasciasse di citare un’ipotetica collisione in volo con un altro velivolo),[34] portò addirittura in secondo piano la teoria del distacco della coda per privilegiare quella del guasto alle turbine: i corpi, infatti, avrebbero presentato, a detta di alcuni medici interpellati, non i segni dell’esplosione, né quelli della depressurizzazione, bensì quelli dell’impatto con il mare, con tipiche lesioni da schiacciamento o precipitazione. “Dopo essersi avvitato su se stesso, l’apparecchio trascina allora giù, in accelerazione progressiva e pressoché incontrollabile, il suo tragico carico di vite umane”:[35] l’aeromobile non si sarebbe così spezzato in volo ma, per un guasto repentino ai motori, avrebbe impattato senza possibilità di scampo, impedendo qualsiasi reazione ad equipaggio e viaggiatori.
3.2 “L’Itavia è un pericolo e va sciolta”
Una micidiale “reazione a catena” fu, così, in quei primi giorni, inevitabilmente innescata e, sebbene ancora qualche voce si fosse pronunciata per la moderazione (prima fra tutte quella del presidente dell’Associazione nazionale piloti aviazione commerciale Adalberto Pellegrino, “che ha espresso ‘preoccupazione per alcuni interventi politici apparsi dettati dall’emotività e non dall’esattezza delle informazioni’”)[36], il disastro del Dc9 parve non avere altre responsabilità se non quelle addebitabili alla compagnia.
Ed il 2 luglio comparve sull’“Unità” la notizia che, con un’iniziativa congiunta alla Camera ed al Senato, gli esponenti del Pci avevano chiesto al Ministro dei Trasporti di accertare le responsabilità dell’Itavia nella sciagura aerea, interrogandosi se “le oltre 30 mila ore di volo totalizzate dal DC-9 siano da considerarsi normali”.[37] Luca Villoresi su “Repubblica” riportò le dichiarazioni del pilota Itavia Adriano Ercolani: “È un anno che l’I-TIGI andava avanti con quel difetto, una vibrazione che si avvertiva su tutta la struttura più che su un punto preciso, e che tutti gli equipaggi più sensibili avevano segnalato […] A questo punto l’unica [ipotesi] valida diventa che il DC 9 I-TIGI si sia disintegrato per un danno alla struttura. I segni premonitori, del resto, c’erano”.[38] E Giovanni Maria Pace sullo stesso giornale espose con dovizia di particolari il fenomeno dell’“affaticamento dei metalli”, vale a dire di quel processo che, attraverso continui cicli di compressione e depressurizzazione, indebolisce i velivoli ed impone di sostituirli, osservando come “il DC-9 dell’Itavia si trovava in piena ‘zona fatica’, era entrato nell’infida stagione della vita dei metalli in cui piccole fessure, lievi cedimenti possono di colpo trasformarsi in larghi squarci, provocando il subitaneo collasso dell’intera struttura”.[39]
Anche Antonio De Falco dalle colonne del “Giorno”, prendendo spunto da un noto episodio, citato da tutte le principali testate giornalistiche (quello del “colpo alla coda” subito dal Dc9 all’aeroporto di Cagliari qualche giorno prima), denunciò il frazionamento delle competenze e la mancanza di unitarietà sul controllo e la sicurezza dei voli in Italia, attribuite ad almeno tre diverse amministrazioni.[40]
Molti altri giornali ripresero sulle loro colonne le dichiarazioni di Ercolani. Tra questi “Il Messaggero”,[41] “l’Unità”[42] ed il “Corriere”, sul quale comparve un’intervista rilasciata dal pilota ad Andrea Purgatori: “L’altra sera, quando ho saputo che un DC-9 era scomparso, ho subito pensato all’I-TIGI […] Era l’unico DC-9 dell’Itavia ad avere le vibrazioni”.[43] Incalzato, però, dalla domanda del giornalista su di una sua precedente dichiarazione in merito all’inaffidabilità dell’intera flotta, Ercolani aggiunse: “No, gli aeroplani dell’Itavia sono sicuri, e anche abbastanza ben controllati”.[44]
Ad avvalorare ulteriormente l’ipotesi del cedimento strutturale contribuì l’intervento di un noto progettista aeronautico, Giuseppe Gabrielli, le cui dichiarazioni furono raccolte da Leonardo Coen su “Repubblica”: “Alcune circostanze mi hanno fatto pensare che quello che una volta successe ai Comet si sia ripetuto su quel Dc-9 che di ore di volo ne aveva già fatte parecchie”.[45]
La teoria del collasso improvviso del Dc9 a cinque giorni di distanza dal disastro non raccolse però l’adesione incondizionata di tutti gli organi d’informazione: “l’Unità”, in particolare, sebbene non avesse in precedenza risparmiato titoli critici nei riguardi della compagnia, tra il 2 ed il 5 luglio tornò incredibilmente sull’ipotesi della collisione con un altro vettore: ad accreditare la posizione intervenne in quei giorni il recupero di ulteriore materiale dal mare di Ustica (due piccole ruote legate da un asse di lega leggera, dei salvagente con la scritta Nsa-Usa), definito dai più “immondizia”, ma che permise a Vincenzo Vasile di reintrodurre nel dibattito il problema del traffico militare sui cieli del Tirreno (“Molti piloti ribattono, però che anche quella sera, come spesso in quella zona, il cielo era attraversato da aviogetti militari”)[46] ed in seguito di parlare chiaramente della presenza di un aereo spia statunitense come di un’ipotesi gravissima, come di uno “spettro” che prende corpo.[47]
Anche l’“Avanti!” si espresse contro l’ipotesi del cedimento, riprendendo le parole del pilota Itavia Paolo Palagi, che aveva condotto il Dc9 nella tratta Palermo-Bologna il pomeriggio del 27 giugno (“Dichiaro di aver preso in consegna a Palermo il velivolo ‘I-TIGI’: dopo i controlli previsti l’aereo risultava completamente idoneo al volo”)[48], e dell’Associazione nazionale controllori di volo, che ricordò le numerosissime “near collisions” (le quasi-collisioni) segnalate dai vari piloti (“La zona di mare in cui si è verificato l’incidente è notoriamente interessata da una notevole attività aerea militare”)[49].
Qualche testata provò a rilanciare l’idea di un’improvvisa tempesta atmosferica, talmente grave da spezzare l’aereo,[50] ma, come si è già detto, la reazione era oramai avviata, ed il 4 luglio tutti i gruppi parlamentari in Senato (escluso il Movimento sociale) chiesero, con una mozione congiunta, la revoca delle licenze di volo all’Itavia, la quale, “nonostante il tremendo impatto dell’episodio di Ustica, sia sull’opinione pubblica nazionale che all’immagine della compagnia […] continuò ad operare con regolarità i propri voli nel periodo estivo”[51], istituendo nel contempo una commissione tecnica per indagare sulle cause dell’incidente occorso all’aeromobile I-Tigi, che fornì alla Procura della Repubblica di Roma, divenuta nel frattempo titolare dell’inchiesta giudiziaria, una serie di relazioni ricche soprattutto di analisi radaristiche.[52]
La mobilitazione politica impose così al governo di “considerare se non si impongano urgenti ragioni per la revoca delle concessioni all’Itavia ed il loro trasferimento alla società di bandiera”: i giornali si fecero subito araldi di un gesto che avrebbe potuto rappresentare il “canto del cigno per la più consistente flotta commerciale italiana”.[53] Gli ambienti più moderati si resero subito conto della degenerazione cui la vicenda stava andando incontro; Purgatori sul “Corriere” raccolse lo sfogo dell’imprenditore democristiano, vicepresidente della Commissione trasporti della Camera e presidente dell’Aigasa, l’Associazione italiana gestori aeroporti e aeroportuali Gaetano Morazzoni: “Credo si tratti di un documento che esprime più l’emozione cresciuta in seguito all’incidente e meno la logica che dovrebbe guidare una politica del trasporto aereo seria e responsabile. Sarebbe un po’ come chiudere la Fiat perché ogni anno ci sono migliaia di morti sulle strade […] Non si tratta di difendere l’Itavia o l’Alitalia, ma di preservare la intera rete di scali, impedire pericolosi monopoli e sviluppare il settore, invece di farlo regredire”.[54]
Ma effettivamente nessuna argomentazione in quei giorni poté reggere il confronto col titolo scelto da “Repubblica” per aprire sulla notizia della mozione parlamentare: “L’Itavia è un pericolo e va sciolta” fu la sintesi con la quale Luca Villoresi riferì in definitiva l’istanza di scioglimento della compagnia e, “visto il giudizio pressoché unanime formulato nei confronti dell’Itavia è probabile che la richiesta avanzata dai senatori trovi, in tempi abbastanza brevi, la sua realizzazione pratica”.[55] Una vera e propria sentenza di condanna emessa dall’intesa classe politica, cui rispose il segretario generale della Federazione italiana lavoratori dell’aviazione civile-Cgil Angelo Braggio, il quale definì la richiesta “un segnale di rozzezza politica, di stupido ideologismo, di prevaricazione nei riguardi della magistratura e delle commissioni d’inchiesta, nonché di cecità per le conseguenze occupazionali che potrebbero ripercuotersi sui mille lavoratori e le loro famiglie, dipendenti della compagnia Itavia”.[56]
Otto giorni dopo la sciagura, mentre la carta stampata diffondeva nell’opinione pubblica il quasi unanime pronunciamento di Palazzo Madama, il recupero in mare della fusoliera di un aereo militare statunitense riaccese, tuttavia, il dibattito sulle possibili ipotesi, che sembravano oramai essersi cristallizzate sulla piena responsabilità della compagnia aerea.
Un duro intervento del quotidiano “Lotta continua” mise per la prima volta in relazione l’ipotesi dell’abbattimento da parte di un missile con le politiche di risparmio, e, dunque, con la negligenza e le responsabilità della compagnia, la quale avrebbe scelto consapevolmente di avventurarsi su di un’aerovia, la Delta 14, più economica, perché più breve, ma “sulla quale è possibile ogni tipo di traffico, militare o civile, con permanente pericolo di collisione”,[57] circostanza, quest’ultima, confermata dai “relitti raccolti nella zona del disastro, che appartengono senza possibilità di dubbio a un velivolo militare statunitense”.[58]
Vincenzo Vasili, che pochi giorni prima aveva già ampiamente polemizzato contro chi aveva definito “spazzatura” i reperti recuperati nel Tirreno intorno ad Dc9, tornò sull’“Unità” per denunciare il subitaneo occultamento del “grosso frammento di sei metri appartenente alla fusoliera di un aereo che pur era stato ripescato sabato sera tra Ponza e Ustica”,[59] e sul quale “tecnici USA avrebbero già chiesto alla autorità italiane di poter svolgere un esame top-secret”.[60] Il giornale comunista diede, inoltre, risalto alla notizia del “mancato ritorno alla base della portaerei ‘Saratoga’ di un Phantom che avrebbe dovuto effettuare una missione proprio la sera del tragico disastro”,[61] e di due piloti dalla base aerea di Verona, dove aveva sede il comando della Setaf, la Southern European Task Force, assenze entrambe naturalmente smentite dalle autorità militari statunitensi.
La vicenda del relitto scomparso tornò a trovare spazio sui quotidiani anche nei giorni successivi, quando però – come vedremo – l’attenzione dei media era quasi interamente calamitata dalla risposta del governo alla mozione parlamentare sulla revoca delle licenze di volo all’Itavia. Purgatori sul “Corriere” dell’8 luglio intervistò il generale Biagio Cacciola, sottocapo di stato maggiore del comando delle forze alleate del sud Europa, che sentenziò categoricamente: “Abbiamo rivisto tutta la nostra pianificazione e possiamo affermarlo con certezza: non c’erano aerei sotto controllo NATO, di nessun paese alleato, che si trovassero nel cielo di Ustica, al momento dell’incidente del bireattore Itavia. Non c’erano esercitazioni in corso e nessun caccia manca all’appello delle squadriglie del Mediterraneo”.[62]
In quei giorni iniziò, inoltre, un ulteriore pesante coinvolgimento dell’Alleanza atlantica nella vicenda, la quale, oltre che per l’aereo ed i piloti “scomparsi”, fu tirata in causa anche relativamente alle registrazioni dei tracciati radar del Nadge, il Nato Air Defense Ground Environment, un sistema di avvistamento in grado di coprire l’intera Europa, e che avrebbe potuto registrare informazioni preziose sulla caduta del Dc9.[63]
3.3 “Volare è un po’ morire”
Il dado era oramai comunque tratto, ed all’interrogazione congiunta di tutti i gruppi parlamentari del Senato il governo fu chiamato a dare risposta per mezzo del Ministro Rino Formica, atteso in aula per mercoledì 9 luglio; il giorno precedente alla relazione del responsabile dei Trasporti si assistette sui giornali ad un susseguirsi di memorandum e ricostruzioni come non si era più verificato dai giorni immediatamente successivi al disastro. Molti esponenti del mondo politico tornarono ad esprimersi in maniera opposta su di una vicenda che sembrava relegata al solo problema della manutenzione degli aeromobili italiani: di nuovo il senatore Corallo tornò a scagliarsi contro l’Itavia, proprietaria di aerei “più vecchi della loro età dichiarata”,[64] rivelando che “alcuni piloti avrebbero rifiutato di firmare il giornale di bordo per non avallare il falso”.[65]
Gli interventi sulla stampa di quei giorni rivelano, comunque, lo spasmodico interesse dei media ad avere dal Ministro Formica chiarimenti più sulle revisioni cui il Dc9 era stato sottoposto nel corso degli anni o sui presunti ritardi nei soccorsi, che la descrizione del quadro generale all’interno del quale doveva essere collocata la sciagura aerea (tenuto conto soprattutto dell’anomala condizione dello spazio aereo italiano, luogo privilegiato delle esercitazioni militari dell’Alleanza atlantica). A smorzare l’ipotesi della collisione intervennero anche le dichiarazioni del presidente della Commissione ministeriale d’inchiesta Carlo Luzzatti, che al “Messaggero” espose i primi risultati delle verifiche sul materiale recuperato accanto al relitto del Dc9: “Mi sembra che la possibilità di attribuirlo ad un altro aereo sia solo un’ipotesi di alcuni giornali”.[66] Più tardi anche il sostituto procuratore di Palermo Aldo Guarino, al momento del passaggio delle consegne al suo collega romano Santacroce, si lasciò andare ad affermazioni dello stesso tenore: “Appare lontana, almeno all’esame visivo dei relitti […] l’ipotesi di una collisione con un aereo militare”.[67]
Intanto la compagnia – rompendo il silenzio dietro al quale si era trincerata fin dall’inizio – aveva preventivamente diramato un comunicato ufficiale nel quale rivendicava la piena efficienza della flotta, l’indiscutibilità delle capacità del personale e l’alto livello dei servizi forniti, definendo la possibile revoca delle concessioni ed il loro trasferimento ad altra compagnia “una palese illegalità sul piano giuridico e su quello dell’opportunità, trasformandosi di fatto in una confisca del patrimonio” ed “inaccettabili le illazioni sulla affidabilità della flotta aerea Itavia, sull’efficienza della sua organizzazione tecnica, sulla qualità e quantità dei controlli da essa periodicamente eseguiti per garantire la sicurezza dei voli”.[68] Si trattava di un ultimo, inutile tentativo di porre rimedio alla vertiginosa decrescita del traffico charter e di linea, ed alla cancellazione di numerosi voli e di accordi con i tour operator.[69]
Le sorti dell’Itavia non trovarono, infine, nelle dichiarazioni di Formica nessuna sponda cui appoggiarsi in quei critici frangenti: l’intervento del Ministro in Senato, definito dai giornali per lo più reticente, per molti aspetti insoddisfacente, naturalmente generico ed evasivo, in generale inconcludente, tese, infatti, a salvaguardare tutte le possibili spiegazioni del disastro aereo: “Tutte e tre le ipotesi (avaria, sabotaggio, scontro in volo) devono essere ‘attentamente valutate dalla commissione d’inchiesta’”.[70] L’unico elemento di assoluta certezza nell’intera vicenda fu per Formica l’assenza di qualsiasi coinvolgimento dell’Aeronautica militare italiana: “A proposito dell’ipotesi di una collisione ha escluso […] che un aereo militare italiano possa essersi scontrato con quello dell’Itavia”.[71] Durissime le reazioni soprattutto dei senatori comunisti e degli organi di stampa della sinistra: Corallo tornò a chiedere l’immediata liquidazione della compagnia, il radicale Spadaccia ne caldeggiò la nazionalizzazione, l’assessore al turismo della regione Calabria Sergio Scarpino sollecitò la revoca delle concessioni alla società aerea, Giuseppe Mennella sull’“Unità” accusò il Ministro di ignoranza dell’intera vicenda, non essendo riuscito a fornire alcun nuovo elemento di conoscenza o di analisi di cui qualsiasi attento lettore dei giornali non fosse già in possesso, e di ambiguità, quando si limitò a rispondere così alla replica del senatore Corallo che lo accusava di reticenza: “La reticenza è di chi non sa e di chi sa e non dice. Io ho detto tutto quello che so”.[72] Ironico Villoresi su “Repubblica”: “Formica è riuscito, parlando per quasi un’ora, a non rispondere ad una sola delle domande più scottanti”.[73]
Aldilà della scarsa autorevolezza delle dichiarazioni rilasciate dal Ministro in Senato, l’aspetto di maggiore imbarazzo dell’intera giornata per la classe politica fu la desolante latitanza dei parlamentari: “Formica ha iniziato a parlare […] davanti all’aula semideserta di Palazzo Madama. Sedici senatori in tutto ad ascoltarlo”.[74]
Nei giorni successivi all’intervento del Ministro dei Trasporti i mezzi d’informazione tornarono ancora, sebbene, come spesso accade nel nostro paese dalla memoria cortissima, con sempre minore frequenza, sulla vicenda del disastro aereo, soprattutto con interventi tesi a rafforzare le ricostruzioni che addebitavano alla compagnia l’intera responsabilità dell’accaduto, o (la minoranza) per sollecitare maggiore garantismo nei riguardi dell’Itavia: Andrea Artoni, ad esempio, in una pacata riflessione sul “Giornale” argomentò che “correre precipitosamente alle accuse di colpa, senza prove alla mano, come sta avvenendo da varie parti, è ingiusto e riprovevole, esattamente com’è delittuoso celare prove di responsabilità”.[75] Di ben altro avviso l’inchiesta condotta da Pietro Calderoni per il settimanale “L’espresso”, sul quale esordì senza mezzi termini: “Quel Dc 9 dell’Itavia laggiù, in fondo al mare, prima o poi ci sarebbe finito comunque: così dicono i piloti della Filt-Cgil, ricordando che quell’aereo era stato comprato, giù usato, dalla Haway airlines che lo adoperava per il trasporto del pesce; tanto è vero che al suo arrivo in Italia gli furono trovati dei ‘pezzi’, facenti parte della struttura, corrosi dall’acqua marina”.[76] Il reporter si concentrò, poi, sulla ricostruzione della carriera imprenditoriale del presidente della compagnia e sui poco illustri natali di quest’ultima: “L’Itavia è la compagnia aerea privata diretta da Carlo Davanzali, imprenditore spregiudicato e molto legato agli ambienti democristiani. Davanzali rileva la società nel ‘58 con appena tre miliardi di lire; poi l’anno seguente la registra a Catanzaro, in modo da poter anche incassare i contributi della Cassa per il Mezzogiorno”.[77]
Ecco, dunque, svelato dai giornali almeno uno dei tanti misteri sorti intorno al dramma di Ustica, ecco finalmente chiarito il peccato originale dell’Itavia: l’essere nata in concorrenza alla compagnia di bandiera, strappandole concessioni di rotte aeree particolarmente redditizie, essere cresciuta spropositatamente grazie all’aiuto di finanziamenti pubblici pur rimanendo privata, avere tentato di infrangere il monopolio del trasporto aereo, avere acquistato velivoli “di seconda mano” (politica assolutamente esclusa dall’Alitalia, che, in caso di assorbimento della compagnia di Davanzali, si sarebbe trovata con una grossa gatta da pelare) o averli presi in affitto, averci acceso sopra delle ipoteche, aver introdotto nel sistema del trasposto aereo logiche concorrenziali. Peccato, evidentemente, senza redenzione.
Fino al 18 luglio l’attenzione fu così interamente concentrata sulle carenze della compagnia e del velivolo. Unica nota a margine, la notizia dell’ordine di sequestro emesso dal sostituto procuratore Santacroce delle registrazioni su nastro magnetico dei tracciati dei radar militari.[78] Per il resto ancora illazioni, questa volta sull’affidabilità dei reattori del velivolo, dopo che la Faa, la Federal aviation administration statunitense, aveva imposto un’ispezione su tutti i motori di un diffuso modello installato sui Dc9: “Il motore, messo sotto accusa era, tra l’altro, montato sul Dc 9 dell’Itavia caduto al largo di Ustica […] Il primo allarme sull’affidabilità dell’JT 8D è nato in seguito all’esplosione di un motore di un DC 9 della Hawaiian airlines (la compagnia che aveva venduto all’Itavia il Dc 9 I-TIGI)”.[79]
3.4 Il “fustigatore”
Solo al volgere del mese intervenne un nuovo elemento a sconvolgere tutte le ricostruzioni ed i pochi elementi di certezza che in quelle settimane sembravano essersi ricavati. Sulla Sila vennero, infatti, rinvenuti i resti di un aereo militare. Le prime ricostruzioni collocarono lo schianto intorno al mezzogiorno di venerdì 18 luglio, in località Colimiti di Castelsilano, un paese del crotonese; i giornali riportarono la notizia di una tremenda esplosione avvertita chiaramente in tutti i paesi circostanti e di un incendio sedato con grande fatica dai vigili del fuoco subito intervenuti sul posto.[80] Si scatenò immediatamente una ridda di interpretazioni ed ipotesi: l’aereo, malgrado le strettissime misure di sicurezza adottate intorno all’area dell’impatto ed il riserbo delle autorità, fu subito descritto dalla stampa come un Mig23S di costruzione sovietica e di provenienza libica, con a bordo un solo pilota, immediatamente recuperato e seppellito in gran fretta, senza nessun esame autoptico, nel cimitero di Castelsilano; il velivolo non sarebbe stato attrezzato per il fotorilevamento, quindi fu subito scartata la teoria dell’aereo-spia; l’assenza di serbatoi supplementari e la distanza dalle coste libiche fecero escludere qualsiasi altro genere di missione che non fosse l’atterraggio in territorio italiano, verosimilmente per consegnarsi alle autorità Nato, ipotesi giustificata dalla mancata segnalazione dell’aereo da parte dei radar della Dat, la Difesa aerea territoriale; un malore del pilota o un guasto tecnico avrebbero causato lo schianto;[81] in alternativa i giornali della sinistra sollevarono anche la teoria dell’abbattimento del Mig – un ricognitore, forse un vero e proprio aereo da combattimento, soprannominato nel gergo dei piloti il “fustigatore”, in cerca di una fantomatica base Nato segreta collocata tra Calabria e Basilicata – da parte della contraerea.[82]
Le autorità libiche intervennero a loro volta per fornire una ricostruzione – ritenuta plausibile dal Ministero degli Esteri italiano – di quanto accaduto in Calabria, affidando all’agenzia ufficiale Jana un breve comunicato che occupò le pagine dei giornali il successivo 22 luglio: “Il pilota sarebbe stato d’improvviso colto da ‘un attacco cardiaco mentre si trovava in volo di addestramento nello spazio aereo internazionale’”.[83]
Pochi all’inizio pensarono di mettere in collegamento la vicenda con il disastro di Ustica. Purgatori sul “Corriere”, nel descrivere l’ipotetico scenario nel quale il Mig23 poté essersi mosso, citò incidentalmente (forse volutamente) l’aerovia Delta 14, la stessa percorsa dal Dc9 dell’Itavia nella sua tragica rotta.[84] Paolo Gambesca sul “Messaggero” sottolineò come lo stesso procuratore Santacroce si fosse subito interessato all’inchiesta sull’aereo libico.[85] Ma entrambi i riferimenti furono dettati probabilmente più da osservazioni relative ai tratti ed alle cause comuni delle due vicende che a possibili legami concreti tra i due aerei: lo spazio aereo ristretto nel quale si consumarono gli incidenti, la scomparsa o l’assenza di entrambi i velivoli dai radar di terra, per tutti e due il dubbio dell’abbattimento da parte di un missile.
Luca Villoresi, un altro dei cronisti interessatisi ad Ustica nelle settimane precedenti, su “Repubblica” del 22 luglio chiuse però il suo pezzo con questa affermazione: “La fine dell’aereo libico potrebbe saldarsi a quella di un altro aereo, il DC 9 dell’Itavia inabissatosi con 81 persone a bordo. Tra le tante voci circolate per spiegare la sciagura di Ustica c’era stata quella di una collisione: gli addetti ai lavori parlavano proprio di un caccia libico. Solo supposizioni”.[86] Ed anche agli inquirenti della Procura di Crotone non dovette apparire del tutto trasparente l’eccesiva rapidità con la quale le autorità militari decisero di dare sepoltura all’anonimo pilota libico, se di lì a poco ne venne ordinata la riesumazione.[87] I medici che si occuparono dell’esame del cadavere riferirono di non essere “in grado di accertare la causa della morte (soprattutto di non poter verificare la tesi dell’infarto) sia per le gravi lesioni e fratture riportate nell’impatto dal pilota, sia per lo stato di avanzata decomposizione del cadavere”.[88] Ad una settimana di distanza dal giorno presunto dell’impatto del Mig sul massiccio della Sila sentir parlare di “avanzata decomposizione del cadavere” lasciò perplessi non pochi osservatori, i quali però dovettero constatare come, con la stessa solerzia con la quale venne inumata, la salma venisse immediatamente restituita alla Libia subito dopo l’autopsia.
Il 26 luglio, ad un mese esatto dalla sciagura, i giornali finalmente ammisero: “Nel cielo di Ustica, la sera del 27 giugno scorso, c’erano alcuni aerei non identificati in volo su rotte pericolosamente vicine a quella del Dc 9 dell’Itavia diretto a Palermo”.[89] I primi risultati dell’analisi dei tracciati radar da parte dei periti del procuratore Santacroce non lasciarono, infatti, molto altro spazio alle supposizioni: “Dai tabulati esaminati dai tecnici attraverso un cervello elettronico emerge infatti, senza possibilità di dubbio, la presenza di linee non corrispondenti a nessun velivolo conosciuto in quel momento in transito in zona […] Una in particolare finisce per coincidere con quella tracciata dal Dc 9 dell’Itavia”.[90]
Anche il più severo tra gli accusatori della compagnia aerea, il “Messaggero”, fu costretto qualche giorno dopo ad ammettere, sebbene con una circospezione che non aveva parimenti riservato alle tesi accusatorie: “Un fatto appare comunque certo. Da qualche tempo anche in ambienti qualificati si sono affievolite le voci di quanti sostenevano che l’aereo era scoppiato in volo per cause ‘interne’”.[91] Ecco completamente ribaltata la prospettiva: nell’arco di poco più di un mese lo stillicidio di illazioni ed accuse indirizzate dalla quasi unanimità del mondo politico e giornalistico alla compagnia aerea Itavia fu costretto a cedere il passo all’evidenza delle analisi tecniche delle registrazioni radaristiche, che stavano progressivamente appurando quanto nella notte del 27 giugno il cielo di Ustica non dovesse essere poi così tanto “pulito” attorno al Dc9, con buona pace delle smentite che il comando delle forze alleate del sud Europa si era affrettato a dare per bocca del generale Cacciola.
Nulla di tutto ciò poté, comunque, mutare le sorti della compagnia aerea: il suo presidente Davanzali, vista l’impossibilità a far fronte alla sua normale gestione, decise il 10 dicembre 1980 la sospensione di ogni attività; poco più di un mese dopo, con dm 21 gennaio 1981, n. 223 il Ministero dei Trasporti, sulla base della constatazione della prolungata sospensione del servizio da parte dell’Itavia, decretò la decadenza della concessione ad esercitare voli di linea e negò il rinnovo della licenza a condurre qualsiasi attività di trasporto aereo. Il 31 luglio 1981 la compagnia venne posta in amministrazione straordinaria, il personale inserito in Alitalia od in altre società, gli aeromobili, i ricambi, la struttura tecnica ed informatica venduti al miglior offerente.
3.5 Conclusioni
“Dal 1980 ad oggi sono state fatte numerose ipotesi sulle ragioni della sciagura. Dalla bomba a bordo al missile che colpisce per errore l’aereo, dalla collisione in volo al cedimento strutturale, nessuna ha mai trovato finora conferma. Le speculazioni giornalistiche, le intricate vicende connesse e la gran ridda di interessi che ruotavano – e tuttora ruotano – intorno alla compagnia, non hanno permesso di accertare la verità su uno degli episodi più misteriosi e controversi della storia d’Italia. Sulla tragedia di Ustica sono state costruite fortune professionali, spesi litri d’inchiostro e fatte congetture che spesso hanno avuto più il sapore dell’illazione che non dell’accertamento della verità, con grave pregiudizio per le indagini e per l’accertamento delle reali cause della sciagura”.[92]
A poco meno di vent’anni di distanza, l’8 aprile 1999 le note conclusive del collegio peritale radaristico d’ufficio composto da Enzo Dalle Mese, Franco Donali e Roberto Tiberio consegnate al giudice istruttore Rosario Priore, provarono a fornire una lettura della vicenda ed a tracciare uno scenario generale che potrebbero definirsi quanto mai gravi: l’incidente sarebbe stato conseguenza di un’azione militare di intercettazione (da parte di velivoli militari dell’Alleanza atlantica?) verosimilmente nei confronti di un aereo (il Mig23 libico?) nascosto nella scia del Dc9: l’aereo di linea sarebbe rimasto vittima fortuita di tale azione. L’ipotesi più probabile che spiegherebbe le modalità di rottura del Dc9 sarebbe, dunque, da ricercare nella “mancata collisione”. Oggi, a trentacinque anni di distanza dal disastro aereo, accanto alla ricostruzione, ancora controversa per molti, dell’abbattimento del Dc9 nel contesto di “un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese”,[93] rimangono due solide certezze: la morte degli 81 passeggeri a bordo del volo IH870, e la fine di una compagnia aerea, il cui scioglimento, a detta di molti esperti del trasporto aereo, ritardò in Italia di almeno vent’anni l’apertura del mercato, precludendo quei comportamenti competitivi degli agenti di volo indispensabili al recupero della concorrenza in un settore tradizionalmente caratterizzato da assetti monopolistici e da elevata presenza dello Stato.
[1] P. Cucchiarelli, A. Giannulli, Lo Stato parallelo. L’Italia “oscura” nei documenti e nelle relazioni della Commissione stragi, Roma 1997, p. 352.
[2] G. Turnaturi, Associati per amore. L’etica degli affetti e delle relazioni quotidiane, Milano 1991, p. 28.
[3] G. Turnaturi, Emozioni e azioni collettive, in Il dolore civile. La società dei cittadini dalla solidarietà all’autorganizzazione, a cura dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica, Milano 1993, pp. 37-46, in part. p. 44.
[4] Atti parlamentari [d’ora in poi AP], Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, legislatura XIII, Disegni di legge e relazioni. Documenti, Sciagura aerea del 27 giugno 1980 (strage di Ustica-DC9 I-tigi Itavia), Elaborato redatto dai senatori Vincenzo Ruggero Manca, Alfredo Mantica e dai deputati Vincenzo Fragalà e Marco Taradash, p. 385 (www.stragi80.it/documenti/comstragi/proposte/minoranza.pdf).
[5] Istituto per la storia e le memorie del 900 Parri Emilia-Romagna [d’ora in avanti Parri], Archivio di Daria Bonfietti [d’ora in avanti Bonfietti], Carteggio, 1. 1986, Daria Bonfietti ai sigg. eredi, Bologna, 30 luglio 1986 (b. 1).
[6] Parri, Bonfietti, Carteggio, 2. 1987, estratto del verbale della seduta pubblica del Consiglio provinciale di Bologna del 27 gennaio 1987 (b. 1).
[7] Parri, Bonfietti, Carteggio, 1. 1986, Adesioni pervenute al gruppo promotore entro il 30.09.1986, s.l., s.d. (b. 1).
[8] Ibidem, Franco Marchese ed al. al Presidente della Repubblica, Palermo, 27 settembre 1986 (b. 1).
[9] Su quello che la ricerca in questo campo ha definito “familismo morale”, sull’uso delle risorse emozionali al fine di allargare la sfera pubblica e la cittadinanza, sulla figura del “familiare cittadino” che ha innovato gli standard della partecipazione, cfr. G. Turnaturi, C. Donolo, Familismi morali, in Le vie dell’innovazione, a cura di C. Donolo, F. Fichera, Milano 1988, pp. 164-185.
[10] Legislatura XIV, Atto di Sindacato Ispettivo n° 1-00010 pubblicato il 5 luglio 2001 (http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Sindisp&leg=14&id=27146).
[11] Cade un aereo con 81 persone sulla rotta Bologna-Palermo, in “Corriere della sera”, 28 giugno 1980.
[12] Le tante ipotesi del disastro, in “l’Unità”, 29 giugno 1980.
[13] Sull’Itavia era stata sollecitata un’inchiesta, in “l’Unità”, 29 giugno 1980.
[14] Ibidem.
[15] Il tragico “giallo” del DC-9 precipitato: l’unica ipotesi per ora è l’esplosione, in “Corriere della sera”, 29 giugno 1980.
[16] Sulla stessa linea il giorno dopo i piloti dell’Itavia dicono: Non hanno avuto tempo di reagire, in “Corriere della sera”, 29 giugno 1980.
[17] Cfr. Se fosse caduto da 7000 metri avrebbe impiegato quaranta secondi per toccare l’acqua, in “Corriere della sera”, 29 giugno 1980.
[18] “Un funzionario dell’Alitalia mi disse: viaggerete su una carcassa maltenuta”, in “Paese sera”, 29 giugno 1980.
[19] Polemiche. Stavolta P. Raisi non c’entra, ma il governo indaghi sulle “bare volanti” dell’Itavia, in “Il Messaggero”, 29 giugno 1980.
[20] Ibidem.
[21] Quattro inquietanti ipotesi, in “Il Messaggero”, 29 giugno 1980.
[22] L’aereo si è “spezzato” perché ha ceduto la coda, in “Il tempo”, 30 giugno 1980.
[23] Ibidem.
[24] Ipotesi: s’è staccata la coda, in “Il Messaggero”, 30 giugno 1980.
[25] Ibidem.
[26] Ultima revisione a maggio, in “la Repubblica”, 29-30 giugno 1980.
[27] A Palermo la folla angosciata dei parenti vuole sapere come è avvenuta la tragedia, in “la Repubblica”, 29-30 giugno 1980.
[28] Alcuni piloti avanzano l’ipotesi di collisione con un jet “pirata”. Troncata di netto la coda del DC-9, in “Corriere della sera”, 30 giugno 1980.
[29] Prende sempre più corpo l’ipotesi di lesioni nelle strutture del DC-9, in “Corriere della sera”, 1° luglio 1980.
[30] Contro i “jet-carrette” già da tempo proteste, in “Il Messaggero”, 1° luglio 1980.
[31] Cfr. L’Itavia smentisce d’aver comprato usato il DC-9 in Sudamerica ma ammette che era stato danneggiato e aveva un’ipoteca, in “Corriere della sera”, 1° luglio 1980.
[32] L’Itavia: “Generiche le accuse. Da anomalia a guasto c’è differenza”, in “Il Messaggero”, 1° luglio 1980.
[33] Una decompressione causa del disastro?, in “la Repubblica”, 1° luglio 1980.
[34] Cfr. Il DC 9 Itavia aveva strutture logore oppure è stato investito da “qualcosa”, in “l’Unità”, 1° luglio 1980.
[35] I corpi delle vittime del DC 9 non hanno tracce di esplosione, in “l’Unità”, 1° luglio 1980.
[36] Per il sindacato autonomo piloti ogni ipotesi è ancora prematura, in “la Repubblica”, 1° luglio 1980.
[37] Alla Camera e al Senato iniziative del PCI dopo il disastro del DC-9 Itavia, in “l’Unità”, 2 luglio 1980.
[38] “Quel Dc 9 doveva finire così…”, in “la Repubblica”, 2 luglio 1980.
[39] Anche i metalli si gonfiano come palloncini, in “la Repubblica”, 2 luglio 1980.
[40] Cfr. Conflitto di competenze sulla revisione del DC-9, in “Il giorno”, 2 luglio 1980.
[41] Cfr. Due piloti della compagnia la pensano in maniera opposta sull’aereo caduto, in “Il Messaggero”, 3 luglio 1980.
[42] Cfr. “Ho pilotato quel jet e voglio dire la mia”, in “l’Unità”, 3 luglio 1980.
[43] Un comandante Itavia accusa la compagnia: “Su quell’aereo volavo a velocità ridotta”, in “Corriere della sera”, 3 luglio 1980.
[44] Ibidem.
[45] “Quell’aereo è precipitato in mare perché le strutture hanno ceduto”, in “la Repubblica”, 3 luglio 1980.
[46] Impossibile ricostruire la tragedia del jet?, in “l’Unità”, 2 luglio 1980.
[47] Cfr. Sono molte le prove: caccia USA ha speronato il DC-9 dell’Itavia?, in “l’Unità”, 5 luglio 1980.
[48] Ritorna l’ipotesi di una collisione in volo, in “Avanti!”, 3 luglio 1980.
[49] Ibidem.
[50] Anche la turbolenza può squarciare un aereo, in “Il mattino”, 4 luglio 1980.
[51] N. Pedde, Itavia. Storia della più discussa compagnia aerea italiana, Roma 2003, p. 107.
[52] Cfr. Parri, Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica [d’ora in avanti Associazione], Inchiesta giudiziaria, Perizie, 2. Relazioni Itavia, 1980 luglio 8-dicembre 1 (b. 1).
[53] I partiti chiedono di revocare la licenza di volo all’Itavia, in “Corriere della sera”, 5 luglio 1980.
[54] Ibidem.
[55] “L’Itavia è un pericolo e va sciolta”, in “la Repubblica”, 5 luglio 1980.
[56] Intervento polemico dei sindacati dopo la richiesta di revocare la concessione di volo all’Itavia, in “Corriere della sera”, 6 luglio 1980.
[57] Quel DC-9, in “Lotta continua”, 6 luglio 1980.
[58] Ibidem.
[59] C’è anche un pezzo di fusoliera di un jet militare USA, ma non se ne sa più nulla, in “l’Unità”, 6 luglio 1980.
[60] Ibidem.
[61] Ibidem.
[62] La NATO smentisce che manchino suoi piloti dopo la tragedia Itavia e intanto però compie ricerche, in “Corriere della sera”, 8 luglio 1980.
[63] Cfr. Forse i radar della Nato hanno “visto” la tragedia del DC9 scomparso in mare, in “l’Unità”, 8 luglio 1980.
[64] Il giallo del DC 9 arriva oggi al Senato. A quanti interrogativi risponderà Formica?, in “la Repubblica”, 8 luglio 1980.
[65] Ibidem.
[66] Il capo della commissione: “Non ci sono relitti di altri aerei”, in “Il Messaggero”, 8 luglio 1980.
[67] L’inchiesta sull’aereo arriva al giudice romano. Che cosa diranno ora le perizie sui relitti?, in “la Repubblica”, 11 luglio 1980.
[68] L’Itavia dice: “La nostra flotta è pienamente efficiente”, in “Corriere della sera”, 8 luglio 1980.
[69] Cfr. N. Pedde, Itavia. Storia della più discussa compagnia aerea italiana, cit., p. 108.
[70] Il ministro parla al Senato del DC-9 esploso: “Tutte le ipotesi sono valide”, in “La stampa”, 9 luglio 1980.
[71] Il governo esclude una sola ipotesi: la collisione con un “caccia” italiano, in “il Giornale”, 9 luglio 1980.
[72] Sulla tragedia del DC 9 il ministro non sa, in “l’Unità”, 9 luglio 1980.
[73] Formica “reticente” non scioglie i dubbi sulla fine del DC 9, in “la Repubblica”, 9 luglio 1980.
[74] Ibidem.
[75] Troppe accuse senza prove, in “il Giornale”, 10 luglio 1980.
[76] Volare è un po’ morire, in “L’Espresso”, 13 luglio 1980.
[77] Ibidem.
[78] Per il DC 9 il giudice comincia interrogatori e perizie, in “la Repubblica”, 17 luglio 1980. Cfr. Parri, Associazione, Inchiesta giudiziaria, Indagini, 2. Ordine di sequestro dei tracciati radar, 1980 luglio 16-settembre 6 (b. 1).
[79] Sotto accusa i motori di Dc 9 e Boeing 727, in “la Repubblica”, 18 luglio 1980.
[80] Cfr. Precipita jet militare in Calabria, in “l’Unità”, 20 luglio 1980.
[81] Cfr. Veniva dalla Libia per consegnarsi alla Nato?, in “Il Messaggero”, 21 luglio 1980.
[82] Cfr. È un aereo MIG dell’esercito libico il caccia schiantatosi sulla Sila, in “l’Unità”, 21 luglio 1980; Un aereo misterioso cade sulla Sila. È stato abbattuto dai caccia Nato?, in “la Repubblica”, 20-21 luglio 1980.
[83] “Il pilota libico ha avuto un infarto”, in “l’Unità”, 22 luglio 1980. Cfr. inoltre Una conferma: “È caduto in circostanze poco chiare”, in “Il Messaggero”, 22 luglio 1980.
[84] Nel giallo del Mig una “verità” libica: per Tripoli il pilota ha avuto un infarto, in “Corriere della sera”, 22 luglio 1980; cfr. inoltre S’intrecciano le inchieste del Mig libico e del DC-9, in “Corriere della sera”, 25 luglio 1980.
[85] Cfr. Non potrà mai essere spiegato il mistero di Ustica?, in “Il Messaggero”, 22 luglio 1980.
[86] Il pilota del Mig libico cercava asilo politico?, in “la Repubblica”, 22 luglio 1980.
[87] La magistratura ordina di riesumare il cadavere, in “l’Unità”, 23 luglio 1980.
[88] Il “Mig23”. Il ministro risponderà in Parlamento, in “Il Messaggero”, 25 luglio 1980.
[89] Com’è finito il Dc 9 Itavia? Sul radar tracce sconosciute, in “la Repubblica”, 26 luglio 1980.
[90] Ibidem.
[91] Si torna a parlare di collisione in volo, in “Il Messaggero”, 29 luglio 1980.
[92] N. Pedde, Itavia. Storia della più discussa compagnia aerea italiana, cit., p. 104.
[93] Sentenza-ordinanza del giudice istruttore Rosario Priore, 31 agosto 1999 (http://www.stragi80.it/documenti/gi/sentenza.html).